Sport, 20 ottobre 2022

“Giusto smettere a 40 anni. Evenepoel è il mio erede”

La straordinaria carriera di Philippe Gilbert, uno dei più grandi campioni di ciclismo

LUGANO - Il belga Philippe Gilbert è stato uno dei più grandi corridori degli ultimi 20 anni. Ha vinto nelle Classiche del Nord: sui muri delle Fiandre, sul ciotolato della Roubaix, sui veloci e insidiosi strappi delle Ardenne. Ma anche nel dispendioso Giro di Lombardia, detto il Mondiale d’autunno, e nella rognosa classica di San Sebastian. Ha piazzato delle stilettate feroci ai Grandi Giri e in una occasione, in quel di Cham nel 2017, ha pure vinto una tappa del Tour de Suisse. Il colpo più bello, che ha abbellito un palmares per altro già ricco, lo ha realizzato nel 2012 a Valkenburg, la città dei Mondiali, quando sorprese tutta la concorrenza con un attacco mozzafiato sul Cauberg. Un campione, Gilbert, non solo nei numeri ma anche nel comportamento e nelle attitudini dentro e fuori il ciclismo: leader nato, ha sempre sostenuto i suoi compagni di squadra e li ha incentivati a migliorare. Ha dato anche consigli preziosi ai più giovani, uno dei quali, il fenomeno Remco Evenepoel, recente vincitore del Mondiale di Wollongong, è pure diventato suo amico. Leggere per credere: “ Tempo fa gli ho tirato le orecchie: Remco, se continui ad andare sui social ti farai solo del male” ha raccontato Gilbert a Eurosport nei giorni scorsi. Il ragazzo, capita l’ antifona, ha raccolto l’invito del veterano, che domenica scorsa alla Parigi-Tours ha disputato la sua ultima competizione di carriera.


“Lascerò un vuoto? Non credo, ora tocca ad Evenepoel”, ha detto nell’intervista rilasciata alla TV di Parigi e della quale riproduciamo alcuni passaggi significativi. 


Philippe Gilbert, qual è il ricordo più bello della sua lunga carriera? 
Parecchi. Ma credo che il momento più emozionante sia stato quando ho attraversato la linea d’arrivo al Giro delle Fiandre del 2017. Ero campione nazionale e stavo per vincere la Ronde. Io, cittadino vallone ma belga nel cuore, sono sempre stato contro le divisioni e gli steccati. Quel giorno mi commossi quando capii che anche i fiamminghi stavano condividendo la mia gioia.


Il momento più difficile?
Ho avuto alcuni periodi difficili. Due in particolare: nel 2015 e nel 2018, quando mi infortunai alla tibia e al ginocchio. Ma non mi sono mai perso d’animo: ho la testa dura e non mi abbatto mai. Nel 2019 tornai alle corse più motivato di prima e vinsi la Parigi-Roubaix, un po' a sorpresa. 


Veniamo alla sua impresa nel Giro delle Fiandre del 2017. 
Se non sbaglio me ne andaì ad una cinquantina di chilometri dal traguardo. Mi ero preparato bene per quella corsa. Già nel Brabante e ad Harelbeke notai di avere una buona gamba. Al Fiandre il grande favorito era Van Avermaet. E poi c’era anche Sagan. Ma ero motivatissimo e non temevo nessuno. Quando andai all’attacco
ero sicuro che sarei arrivato al traguardo da solo. Azzardo? No, direi coraggio. Quel giorno mi sentivo un leone. 


E il trionfo non previsto alla Parigi- Roubaix?
Dicevano che non ero un corridore da Roubaix, che sul ciotolato non avrei avuto vita facile. E i risultati delle edizioni precedenti non erano certo incoraggianti. Ma alla fine quando senti che la gamba va a mille e la testa è rilassata, beh, allora giochi le tue carte. Non importa se il terreno non è ideale. Rimasi al comando con Politt. Da soli. In poco tempo creammo il vuoto. Anche in quell’occasione mi sentissimo fortissimo, anche se temevo in qualche sortita a sorpresa del tedesco. Andò bene. Vincere al velodromo di Roubaix non è roba da tutti.


Il 2011, anno straordinario.
Incredibile quella stagione. Ero imbattibile. Mi preparai al meglio per le classiche delle Ardenne. Era giunto il momento di vincere a casa mia. E così, dopo la Freccia-Vallone e l’Amstel Gold Race, mi imposi anche nella Liegi-Bastogne-Liegi, una corsa durissima che si sviluppa nel territorio dove sono nato io. Obiettivo raggiunto e grande gioia: sono cresciuto vicino alla Redoute, una delle salite storiche del ciclismo, e strappo storico della Liegi.


Poi il Mondiale di Valkenburg.
Ero reduce da una stagione piuttosto deludente. Non seppi ripetere il 2011 e ciò era dovuto al fatto che avevo perso la fame di successo. Eppure dentro di me sentivo che prima della fine dell’anno mi sarei riscattato. Detto fatto ai Mondiali olandesi di Valkenburg piazzai la botta decisiva sul Cauberg, a 5 chilometri dal traguardo. Una festa. Sullo strappo c’erano tanti tifosi belgi. Quandi partii gli avversari rimasero di stucco, come se fossero imballati. Giunsi in vetta con 7-8 secondi di vantaggio. Furono sufficienti per arrivare solo al traguardo.


È mancata la Milano-Sanremo.
Ci ho provato sino all’ultima edizione. Ma forse non era nelle mie corde. Ma non importa: sono strafelice della mia carriera. Non mi sono mai preoccupato dei record. 


Da Gilbert ad Evenepoel: il Belgio può stare tranquillo. Lei ha già un erede. 
Remco è un fenomeno ed è pure un amico. Dopo il grave infortunio al Giro di Lombardia di due anni fa, non pensavo si riprendesse così presto. Eppure ci è riuscito e gli faccio i complimenti. Ha una carriera luminosa davanti. Del resto diventare campione del mondo a 22 anni non è scontato. Di lui conserverò sempre un buon ricordo, in particolare per quel gesto solidale durante i Mondiali del 2019 ad Harrogate. Ero a terra dopo una brutta caduta e lui venne in mio soccorso, cercando di aiutarmi a risollevarmi. Cappello!

MA/ES

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