Sport, 13 maggio 2024

“Vincete per il nostro popolo e non per quei figli di p…”

Ricordo di Cesar Luis Menotti, il CT che portò gli argentini al primo titolo iridato

LUGANO - Negli scorsi giorni è morto Cesar Luis Menotti, il commissario tecnico che guidò l’Argentina al titolo mondiale nell’ormai lontanissimo 1978. Fu il primo e anche il più discusso di una serie di tre, perché conquistato in uno dei periodi più oscuri della storia del paese sudamericano e perché fu favorito da alcune fattori esterni che ancora oggi fanno discutere (arbitraggi compiacenti e la famosa marmelada peruana). El Flaco, come era chiamato il tecnico di Rosario, ebbe grandi meriti: assemblò al meglio un gruppo di teste calde e cambiò lo stile di gioco della Seleccion, privilegiando la fase offensiva. Non era il calcio-bellezza ma almeno lui ci provò. Vincendo e realizzando il Grande Sogno. 


Il Grande Sogno ossia il primo titolo mondiale di un Argentina che sino al 1978, pur avendo dato i natali ad autentici fenomeni del pallone (Pedernera, Rossi, Di Stefano, Sivori o Angelillo) non era mai riuscita a vincerlo. La Grande Svolta: quella che Cesar Luis Menotti impose alla Seleccion dal giorno in cui gli venne affidata la squadra nazionale. Il Grande Cambio: e cioè sfruttare al meglio la qualità dei singoli e privilegiare l’estetica. Il tempo degli sputi, delle entrate a gamba tesa, il tempo di un calcio sparagnino e sempre più reprobo, erano finiti. Il Grande Paradosso, infine: il no a Diego Armando Maradona, futuro Re del calcio, per i Mondiali di casa. Troppo giovane (aveva 17 anni) per una rassegna di tale portata. El Flaco Menotti era un allenatore rivoluzionario: portava idee nuove in un contesto calcistico conservatore, in cui tutto ciò che poteva apparire nuovo era da mandare al macero. Eppure in Europa era appena passato un uragano chiamato “calcio totale”, interpretato da un’Olanda assolutamente superba. Gli mancò il colpaccio ai Mondiali tedeschi, è vero. Ma non sempre i migliori vincono, è una legge non scritta della vita e dello sport. Fu proprio grazie all’influenza del calcio di Rinus Michels, che il CT argentino cominciò a lavorare sulla testa dei suoi giocatori: la palla doveva diventare un bene da gestire, coltivare e controllare e non da buttare semplicemente in avanti. La sua fu una rivoluzione non totalmente compiuta, anche se alla fine il risultato fu grandioso.


Argentina campione del mondo in un contesto storico-politico difficilissimo: la giunta militare voleva a tutti i costi quel titolo per dare lustro e brillantezza ad un paese che si voleva in crescita e sulla strada della modernità e che invece moriva fra le urla dei dissidenti torturati nelle caserme vicino allo stadio della finale (il Monumental Nunez) e degli uomini e delle donne gettate dagli aerei militari sul Rio de la Plata. “Ancora oggi mi pento di aver fatto una foto con Videla dopo il trionfo – disse una certa volta Menotti - Non la rifarei. Venni usato dal regime, chiaro. Ma è facile dirlo adesso”. Lui che era socialista ma che non capiva più le rivoluzioni e i populismi. Un grande cultore del bel calcio: per qualche mese giocò al fianco di Pelè, più avanti avrebbe incrociato Maradona. Dei due disse, lapidario: “Pelé era Dio, Maradona ha fatto cose incredibili col pallone ma Dio non era”, parole sconvolgenti se dette da un argentino. Di Cesar Menotti, che allenò per qualche mese anche la Sampdoria (senza molto fortuna) ricordiamo, infine, quelle parole al veleno pronunciate prima della finale contro gli olandesi a Buenos Aires e rivolte ai generali della giunta sanguinaria: “Ragazzi, vinciamo per il popolo, non per quei figli di puttana”.

RED.

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