Sport, 16 maggio 2023

“Ho visto 6 finali di Coppa. Emozioni, gioie e sofferenze”

Il professor Claudio Calderari tifoso del Lugano, racconta la sua vita in bianconero. Dal trionfo di Maurer e Luttrop del 1968 a quello di Croci Torti del 2022

LUGANO - Claudio Calderari fa parte della generazione che segue il Lugano dalla notte dei tempi. Correva l’anno 1951: col fratello Sergio - di qualche anno più vecchio di lui - presenziò all’inaugurazione dello stadio di Cornaredo; sugli spalti 32.500 spettatori (se togliamo lo 0 finale, abbiamo la media attuale delle partite casalinghe della squadra di Croci Torti). “Eravamo due ragazzini già contaminati dal virus bianconero – ci racconta Claudio – Un virus che si stava diffondendo dal Campo Marzio a buona parte del Ticino, soprattutto dopo la vittoria in campionato del 1949. In porta il mitico Corrodi”. Il suo sogno è quello di festeggiare nel 2026 i 90 anni di suo fratello nel ristorante del nuovo Polo Sportivo. “ Con lo stadio ci saranno importanti ricadute economiche e calcistiche. Dopo aver sofferto e gioito nel vecchio Cornaredo, non vediamo l’ora di entrare nella nuova struttura”.


Claudio vive a Locarno da una vita: insegnante di psicologia al Liceo e alla Magistrale, sposato con Carlotta (che lo ha pure seguito nelle sue avventure calcistiche: lo scorso anno era al Wankdorf per la finalissima), rivendica con orgoglio le sue radici mo-mò: “Sono nato in una delle corti di Rancate, la stessa, tanto per dire, in cui è venuto al mondo Adriano Coduri, il grande capitano bianconero. Forse un segnale… Noi del Mendrisiotto, del resto, abbiano una lunga storia di militanza. In Val di Muggio la sponda sinistra tifava Chiasso, quella destra era tutta per il Lugano”.



Un altro mo-mò ha fatto la storia recente dell’FCL.
“Mattia Croci Torti! Grazie anche a lui lo scorso anno a Berna ci sono andati quasi diecimila persone. Il Crus non è un capo tribù perché allenatore ma perché trascinatore, comunicatore, aggregatore, un ragazzo coraggioso. La definizione cavallo pazzo calza a pennello. Vedrete: con i suoi…druidi sta preparando la porzione magica che speriamo possa equilibrare il combattimento con l’orso bernese (lo Young Boys, ndr), che parte avvantaggiato – ma non ne sono troppo convinto – dal fatto di giocare nella sua foresta, nel leggendario Wankdorf”.


E a proposito di capi tribù, Calderari ne cita altri in chiave-bianconera.
“Il presidentissimo Cecchino Malfanti oppure Otto Luttrop, gli artefici con Monsieur Maurer del sogno chiamato Grande Lugano. Oppure Mauro Galvao, laeder silenzioso, tecnica sopraffina, signorilità, un esempio per tutti, brasiliano quasi atipico. O ancora Angelo Renzetti, il presidente della rinascita: risoluto, competente, visionario e istrionico. Gli dobbiamo molto”.


Claudio Calderari ha vissuto tante emozioni, gioie e sofferenze, molte delle quali legate alle finali di Coppa Svizzera. 
“Una partita secca, con un vincitore (per la gioia dei suoi tifosi) e uno sconfitto (con discussioni che accompagnano il mesto ritorno a casa). Ma soprattutto la finalissima è una festa: in tanti vanno a Berna per stare insieme alle altre persone, una forma di aggregazione che fa soltanto del bene allo sport. Non tutti sono necessariamente tifosi di calcio o del Lugano. Sui treni si caricano tanti ticinesi: mo-mò, bellinzonesi, bleniesi e via dicendo. Con l’orgoglio di rappresentare una squadra ticinese nella Capitale della Confederazione.”


A proposito di finale: Claudio Calderari è veramente un esperto.
Ne ho viste ben sei e tutte con mio fratello Sergio, architetto che da anni abita a Bellinzona. Dal 1968 in poi il Lugano a Berna (con una parentesi a Zurigo nel 2006) ci è andato, appunto, sei volte. Noi presenti, e quasi sempre con gli stessi amici. Ne ricordo due in particolare: Sergio Jauch e Tullio Calloni, dirigenti in epoche diverse. Tullio era alla guida del nostro club quando espugnammo alla grande San Siro. Lo ricordo con affetto.


Fra l’altro dal 1968 in poi lei ha visto tutte le partite in casa.
Da quando sono tornato da Ginevra, città nella quale avevo studiato. Ci fu un periodo in cui andavo anche in trasferta. Ma non ho mancato nemmeno le partite all’estero di Coppa: Barcellona, Madrid, Milano, Donetsk, Copenhagen. Sempre mosso da una passione incredibile. Che non è mai mancata, soprattutto quando il club navigava in acque agitate”.


E allora partiamo dalla prima finale (1968).
Per noi un anno di grandi emozioni. Quel Lugano faceva tremare gli squadroni della Svizzera Interna. Sino alla fine lottò per vincere il titolo, poi fu costretto allo spareggio con lo Zurigo e il Grasshopper, fatto inedito per il calcio svizzero. I bianconeri, forse stanchi e appagati dal successo di Coppa, persero entrambi i match con gli zurighesi.


Dopo 37 anni arrivò finalmente la Coppa.
Era una squadra praticamente ticinese. In rosa due stranieri: Luttrop e Rovatti. Il tedesco era una bomba. Altri tempi, il pubblico si identificava nei propri giocatori, li conosceva tutti. Oggi è più difficile. Una volta Louis Maurer, in una intervista disse che i supporter vivevano al lato dei giocatori, in perfetta simbiosi. Altri tempi, diversi: i cambiamenti del mondo hanno stravolto anche il calcio. I mezzi di comunicazione in questo caso sono stati determinanti.


Louis Maurer disponeva di un complesso forte e solido.
Con quattro nazionali: Signorelli, Gottardi, Prosperi e Brenna. E un gruppo composto da amici veri. E un certo Otto Luttrop, che venne dalla Germania a diffondere il suo verbo calcistico. Cecchino Malfanti aveva costruito una squadra
temibile. Che in finale vestì il ruolo di favorita.


Che vinse a fatica.
Esatto. Il Winterthur, squadra che militava nella lega cadetta, giocò in modo più sciolto. Sapeva che non aveva nulla perdere. Essere a Berna era già una vittoria per i Leoni. Alla fine vincemmo 2-1 grazie alla rete decisiva di Simonetti nel secondo tempo. Esperienza e classe fecero la differenza ma il Winterthur non demeritò.


Durante la premiazione ci fu un momento di grande commozione. 
Ad un certo punto Cecchino Malfanti accarezzò il volto di Nano Coduri,il nostro capitano. Toccante. Un segno di gratitudine e di amicizia per quanto lui e i suoi compagni avevano fatto.


Dopo il trionfo, la caduta. Il Lugano pian piano si perde: alcuni protagonisti del 1968 (Louis Maurer su tutti) se ne vanno, la squadra scivola di qualche posizione in classifica. Ma nel 1971 ha un sussulto ed approda alla finale di Coppa contro il Servette.


“Non era più la stessa squadra – dice Claudio Calderari, naturalmente presente in tribuna in quel nefasto 12 aprile – Anche se contro i ginevrini partiva favorito. Perse senza giocare. In più per metà tempo il tecnico Sing tenne in panchina Luttrop, reduce da un infortunio e quindi non al top della forma”. Ma se nel 1971 il Lugano era in piena fase decadente, 21 anni dopo, quando si qualificò per la finale contro il Lucerna, era una squadra in piena costruzione, grazie al progetto di rinnovamento affidato a Karl Engel. Purtroppo però finì ancora male. 


E anche nel 1992 il Lugano era favorito.
Battemmo in semifinale il Servette, al termine di una partita epica vinta ai supplementari, con Marco Walker in…porta al posto del fratello Philipp infortunato. Mai visto. C’erano tutte le premesse per rivincere la Coppa dopo 25 anni. E invece… 


E invece?
Anche in quella occasione il Lugano era favorito. Di fronte il Lucerna, appena relegato in Lega NazionaleB. Che arrivava depresso e scornato. I tifosi partirono fiduciosi e forse troppo ottimisti per Berna. E l’1-0 di Andrioli, un gran gol su punizione se non ricordo male, alimentò le nostre speranze. Poi subentrò la stanchezza e Knup ci castigò. Ancora una delusione, il 1968 era sempre più lontano.


Un anno dopo, Claudio, il fratello Sergio e la solita combriccola partivano con rinnovate speranze per Berna. Altra finale, nuovo avversario, il Grasshopper. 


Con il 1968 c’era qualcosa in comune: e ciò fu beneagurante. 
In questo caso avevamo in squadra diversi giocatori ticinesi. C’erano pure l’anno prima ma ora erano maturati. Se 25 anni prima avevamo i Coduri, i Signorelli, i Brenna, i Prosperi e i Gottardi, ora c’erano Colombo, Esposito, Morf, Tami. E la squadra, a differenza di 12 mesi prima, era più robusta e più scalta. Le sensazioni erano buone: nel gruppo dei tifosi irriducibili, comunque, si cercava di non trapelare troppo ottimismo, visto il precedente dell’anno prima. 



E poi il Grasshopper aveva tanti buoni giocatori. 
Ma non era una squadra vera. I nomi non bastano. Sutter, Elber, Vega e Sforza non furono sinomino di successo. Vincemmo alla grande (4-1), infliggendo una lezione di calcio alle cavallette. La festa fu naturalmente grande: per noi della vecchia guardia fu un’emozione unica. Era dai tempi di Luttrop e Maurer che non vincevamo la Coppa. Quella notte si festeggiò sino alle
luci dell’alba a Lugano.


Da Bottani a…Bottani
Gli anni Novanta scivolano via fra gioie tremende (San Siro 1995) e delusioni cocenti (retrocessione 1997). Nel 2003 arriva pure il fallimento e la storia del Lugano sembra finita. Poi ci pensa il Malcantone/Agno a fare un bel regalo ai tifosi affranti: la fusione con il neonato AC Lugano. Nel 2010 la svolta: al fianco di Preziosi c’è un nuovo presidente Angelo Renzetti. Tanti anni di sacrifici e rinunce: i soldi non sono molti ma il nuovo conducator fa di necessità virtù e nel 2015 finalmente il Lugano torna in Super League. E l’anno dopo approda in finale di Coppa. Avversario lo Zurigo, appena relegato in Challenge League.


Bianconeri anche in questa occasione favoriti dal pronostico. 
Sembrava tutto alla portata. E poi loro erano stati duramente contestati dai loro tifosi. Ma quando il Lugano parte favorito, sembra fatale che debba perdere. Fu così anche contro lo Zurigo. Sbagliò il rigore del pareggio Bottani, che fu ingiustamente messo alla gogna. Al termine della partita i tifosi locali (si giocava al Letzigrund) esposero uno striscione: “Grazie per la vittoria ma ora vergognatevi”: un chiaro riferimento all’avvenuta relegazione. 


Arriviamo allo scorso anno, alla sesta finale di Claudio Calderari, la prima di Croci Torti e dell’era Mansueto. 
La dirigenza aveva capito che doveva affidare questa squadra ad una sorta di stregone, al mitico Crus. E ci azzeccò. Questa volta al Wankdorf c’era anche mia moglie Carlotta. Fu un Lugano devastante e dominatore. La scena più bella? La rete di Bottani e la sua gioia per aver cancellato il ricordo del rigore sbagliato nel 2006. La festa in Piazza Riforma fu memorabile. Ma ora sotto con il bis. Per me sarà la settima finale.

Mauro Antonini

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