Mondo, 27 marzo 2020

Verso una nuova era dei nazionalismi?

Donald Trump ha scritto che “questo”, ossia la pandemia dovuta al Covid-19, è il motivo per cui gli Stati Uniti necessitano di “confini”. Un contagio globale comporta la proposizione di una serie di quesiti. Uno su tutti: perché una nazione dovrebbe subire gli effetti di quello che accade a migliaia di chilometri di distanza? Perché – dato che questa è la tesi sostenuta da buona parte della scienza ufficiale – un tipo di coronavirus che ha operato il salto di specie, con buone probabilità nel Sud della Cina, dovrebbe sconvolgere l’intero assetto mondiale, comportando tutta una serie di conseguenze tragiche relative ad interessi, costi e rischi umani, economici e socio-sanitari?


La cosiddetta “ideologia mondialista” ha raccontato per decenni di come il mondo non potesse che essere aperto, ma il Covid-19 ha costretto buona parte delle nazioni a sospendere, de facto o de jure, alcuni pilastri della modernità. Persino la “libera circolazione” è stata messa in discussione, con la Spagna che per prima messo in naftalina la Convenzione di Schengen, vietando ai non iberici l’ingresso via terra. Più in generale: molti capisaldi della Ue, tra cui il patto di Stabilità, sono venuti meno o quasi.


Un butterfly effect può sempre modificare il corso della storia, ma la sensazione diffusa è che se la globalizzazione non fosse stata estesa a questi livelli, forse il quadro pandemico sarebbe diverso per intensità e gravità. Congetture o meno, la domanda circola. Se non altro perché – come ha scritto David Quammen nel suo Spillover – i virus in questa epoca hanno iniziato a viaggiare sugli aerei E questo è un elemento che la contemporaneità, forse, non aveva ancora tenuto a mente nella giusta misura. Poi c’è Vladimir Putin, che di tema ne ha posto un altro: la tassazione sui patrimoni depositati al di fuori degli istituti bancari nazionali.

Lo “Zar” vorrebbe che, per via dello stato pandemico, quei soldi venissero tassati mediante un’aliquota fissata al 15%. C’entra pure la delocalizzazione delle imprese, perché Russia Unita sta ragionando anche su come intervenire su quel fenomeno.
Bisogna fare cassa per tutelare le famiglie, cui devono essere garantite coperture. Quello che attiene alla economia interna può far parte di aspetti secondari in questa fase. Ma tutti questi ragionamenti nascondono l’attualità di un assunto, che è il cuore di un articolo pubblicato sul Financial Times: il nazionalismo – hanno titolato – è un “effetto indiretto del coronavirus”. Ogni leader mondiale, dovendo rispondere al fuoco di fila del virus, ha dovuto sfoderare il suo “bazooka“. E la spesa pubblica è tornata a fare la voce grossa.

Per quel che riguarda le cose di casa nostra, questo passaggio del pezzo appena citato appare molto esemplificativo: Quando Angela Merkel, la cancelliera tedesca, ha esposto il suo discorso di emergenza alla nazione, non ha menzionato l’Ue neppure una volta.

Sono i segni dei tempi. L’Unione europea e la Bce, adesso, possono solo coordinare le operazioni, ma gestire lo stato d’eccezione spetta ad ogni singola nazione, che torna così protagonista della storia. I contagiati e i deceduti, del resto, si contano su base nazionale, mentre i controlli alle frontiere possono essere considerati ripristinati. 

La recessione, invece, dovrebbe essere globale. Questo, almeno, pronosticano gli istituti che si occupano di prevedere l’andamento delle economie. Ogni Stato, poi, potrà per misurarsi con quella che viene già annunciata come una conseguenza drammatica mediante ricette diverse. Durante la pubblicazione delle prime notizie sui morti in Germania, il ministro dell’Economia Peter Altmaier non ha affatto scartato l’ipotesi delle nazionalizzazioni. Come potrebbero cavarsela, altrimenti, tutti gli enti che figureranno come insolventi? 

Le scelte economiche fatte durante questa che assomiglia davvero ad una “guerra contro un nemico invisibile”, come l’ha chiamata Emmanuel Macron, possono essere quelle tipiche di un periodo bellico. E come ogni periodo bellico, non sarà raro riscontrare l’aumento della solidarietà tra le persone. Poi, una volta debellato il Covid-19, ci sarà tempo per ragionare sulle ideologie politiche più adatte per procedere con la ricostruzione.

Francesco Boeri / insideover.it

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