Boris Johnson è il nuovo leader del Partito conservatore. Ed è lui a succedere a Theresa May per la guida del Regno Unito.
Un voto che certifica due dati: il passaggio del centrodestra britannico verso una sorta di sovranismo in salsa british; la fine di una leadership fragile e ormai bloccata come quella May a favore di un leader nuovo, carismatico e soprattutto di rottura rispetto al passato più recente della Gran Bretagna. Il tutto con una stella polare: la Brexit, anche senza accordo. Perché da convinto sostenitore del leave, Johnson ha sempre lasciato intendere quale potesse essere il suo piano nei confronti dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Ed è appunto quello di un divorzio da Bruxelles a ogni costo: negoziato o meno.
Sia chiaro: il voto non è un voto di rottura come può essere stato quello di Donald Trumpnegli Stati Uniti o quello di altri leader “populisti” in giro per il mondo. L’elezione di Johnson alla guida del Partito conservatore e quindi a successore della dimissionaria May non equivale a un passaggio alle urne: è un voto politico di un cambiamento di leadership interno ai tories. Questo fa capire quindi come non si possano fare paragoni sul voto. Ma possono invece farsi paragoni e soprattutto parallelismi su come sarà guidata la Gran Bretagna. Che di certo ora potrebbe cambiare registro su diversi punti rafforzando quell’alleanza con gli Usa che, specialmente nelle ultime settimane, era sembrata incrinarsi proprio a causa dei tentennamenti della vecchia guida del partito rispetto alla Brexit e ad altri dossier: in primis l’Iran, la prima crisi che dovrà gestire l’ex ministro degli Esteri oggi guida del partito di governo.
Ed è proprio da questo confronto con Trump che può definirsi la nuova leadership britannica. Con un programma estremamente “populista” per i canoni inglesi, Johnson si presenta al suo popolo come chi deve far uscire Londra e dintorni da un’impasse