Dieci anni fa, il 31 agosto 2015, Angela Merkel pronunciava il celebre «Wir schaffen das» – “Ce la faremo” – simbolo della politica tedesca delle porte aperte. Una dichiarazione che oggi, a distanza di un decennio, divide ancora. In particolare la Svizzera e il Ticino hanno vissuto direttamente le ripercussioni di quella scelta.
«Diversi episodi di criminalità e terrorismo hanno riacceso il dibattito sulla gestione dei confini» osserva il consigliere di Stato Norman Gobbi. «Alcuni responsabili di attentati in Germania e in altri Paesi europei risultavano entrati con i flussi migratori del 2015–2016, senza verifiche sistematiche. Inoltre – prosegue – le statistiche mostrano un aumento dei reati commessi da richiedenti asilo, in particolare furti e aggressioni. Questo conferma come la politica migratoria delle porte aperte, sostenuta dai movimenti noborders, si sia rivelata fallimentare».
Le difficoltà, sottolinea Gobbi, non si sono limitate alla sicurezza. «Dal punto di vista socio-economico, l’arrivo massiccio e incontrollato di migranti ha avuto conseguenze pesanti. Ancora oggi molti non hanno raggiunto un’autonomia economica sufficiente e dipendono dall’assistenza sociale, con costi rilevanti per la collettività. Anche scuole e sistemi di formazione hanno faticato ad assorbire i nuovi arrivati».
Il 2016 fu l’anno più critico per il Ticino, frontiera sud della Confederazione. «In quell’anno – ricorda Gobbi – furono registrati quasi 34’000 ingressi illegali solo in Ticino: un record che mise a dura prova la sicurezza e le strutture di accoglienza. La pressione a Chiasso era tale che furono necessari interventi straordinari e l’apertura del centro di riammissione a Rancate».
La conclusione di Gobbi è chiara: «L’ondata migratoria del 2015–2016 ha mostrato che non bastano i buoni sentimenti o gli slanci umanitari. Serve una politica migratoria chiara e rigorosa, con controlli di frontiera efficaci e cooperazione concreta, non semplici slogan emotivi».