Sport, 04 febbraio 2022

Il giornalista sovversivo e il Brasile dei sogni

La parabola di Joao Saldanha, il CT che si oppose ai militari e lasciò la Seleçao

Storie maledette, racconti di drammi, tragedie e momenti tristi del mondo dello sport recente e del passato: per non dimenticare eroi, protagonisti e anche figure che in pochi conoscono e sono state segnate da un destino fatale o da un declino irriversibile. Come il giornalista brasiliano Joao Saldanha, che un giorno di tantissimi anni fa (il 1969) diventò commissario tecnico della nazionale gialloverde. Un ruolo che occupò per pochi mesi, giacché venne costretto a fare le valigie (in realtà si dimise) perché le sue scelte tecniche e le sue convinzioni politiche non erano in linea con le idee dei generali che allora dirigevano con il pugno di ferro la grande nazione sudamericana. Ma fu grazie soprattutto alla sua personalità e alla sua grande cultura del lavoro che nacque il Brasile probabilmente più forte di tutti i tempi, che l’anno seguente vinse i Mondiali del Messico con Mario Zagallo in panchina. Joao Saldanha allenatore ribelle: oggi raccontiamo la sua storia.


Enigmatico e coraggioso, tanto da essere soprannominato Joao senza paura, Joao Saldanha è stato certamente uno dei personaggi più controversi della storia del calcio brasiliano. Nato nel 1917 nei pressi di Porto Alegre, la città più popolosa del Brasile meridionale, in giovane età divenne contrabbandiere di armi per conto di uno zio materno. Poi, dopo essersi trasferito a Rio de Janeiro, abbracciò il ruolo, sempre scomodo a quei tempi, di leader studentesco. Si iscrisse a diritto ma alla fine, dopo aver praticato in uno studio notarile della vecchia capitale, decise di intraprendere la carriera di giornalista, diventando uno dei più arguti e competenti scrittori di calcio e politica. Non amava i compromessi e spesso si scontrava con dirigenti arroganti e incompetenti; non disdegnava critiche a giocatori e tecnici; ma soprattutto disapprovava il sistema. Da sempre comunista, non lesinò pesanti attacchi al governo militare brasiliano, che nel 1964 aveva rovesciato le istituzioni democratiche con un colpo di stato. Il suo personaggio era attraversato da zone d’ombra: disse di aver partecipato come cronista free lance alla Grande marcia cinese e allo sbarco degli alleati in Normandia. Ma in pochi gli credettero: secondo Didi, campione del mondo nel 1958 e nel 1962, Joao sviluppava una doppia personalità. Per altri, i suoi detrattori, era considerato un bugiardo patentato.


Calciatore modesto
Parallelamente ai suoi impegni professionali e politici, Saldanha ci provò anche con il calcio giocato. Ma la sua fragilità fisica e la scarsa predisposizione al sacrificio, gli impedirono di raggiungere le vette che avrebbe poi toccato da allenatore. Era comunque pronto a stare in panchina e nel 1957 il Botafogo gli offrì la direzione tecnica malgrado non avesse esperienza. La squadra aveva iniziato male il campionato carioca (allora il più importante del Brasile insieme a quello di Sao Paulo) e la tifoseria non approvò quella scelta: era il primo giornalista-allenatore della storia del calcio professionistico! Poco male, perché la squadra di Garrincha e Nilton Santos si aggiudicò il titolo! Ben presto il suo modo di fare, la sua intolleranza verso gli indisciplinati (lui che lo fu per tutta la vita!) e coloro che non seguivano i suoi dettami tecnico-tattici, lo mandarono in rotta di collisione con giocatori e dirigenti. E nel 1959, quasi inevitabilmente, rassegnò le dimissioni dopo che il club decise di vendere Didi. Deluso e amareggiato convocò una conferenza stampa, nella quale massacrò la società. Joao senza paura aveva appena iniziato la sua battaglia contro il sistema calcistico e politico. Sulle pagine dei giornali carioca e nelle emittenti radiofoniche si fece largo a spallate con le sue brillanti e sferzanti critiche: detestava il calcio speculativo, gli allenatori asserviti al potere (soprattutto quelli che schieravano i giocatori imposti dalla dirigenza) e non mancava di attaccare la Nazionale. Il suo fu un percorso ad ostacoli: contro tutti e contro tutto. Era divisivo ma comunque ascoltato.


/> Tecnico del Brasile
Saldanha ebbe modo di elogiare i più grandi campione dell’epoca ma definì masochistica la scelta di Vicente Feola di schierare Altafini titolare nella prima partita dei Mondiali di Svezia e disse che Nilton Santos era l’unico giocatore imprescindibile. Aveva predetto prima di altri la futura esplosione del mitologico Pelè. Il Brasile stava attraversando un’epoca straordinaria, grazie alla doppia conquista del titolo iridato in Svezia, appunto, e in Cile. Ma nel 1966 andò incontro ad una brutta figura. In Inghilterra non si qualificò per i quarti di finale e la federazione decise che bisognava cambiare. E così, dopo svariate riunioni e lunghissime discussioni (che si protraevano sino alle 3 del mattino nella sede di Rio), il presidente della CBF Joao Havelange propose proprio a Saldanha la panchina più prestigiosa del mondo. Nella circostanza, il futuro presidente della FIFA disse queste parole: “Così almeno i giornalisti ci criticheranno di meno se in squadra ne abbiamo uno dei loro”. Joao non ci pensò due volte, anche se alla prima occasione, davanti ad un microfono, fece capire che non avrebbe ammesso intromissioni. A quei tempi la giunta militare, che lo vedeva come fumo negli occhi, spesso e volentieri dava consigli anche calcistici. Ma non solo: il nuovo commissario tecnico comunicò alla stampa gli undici titolari per le qualificazioni sudamericane ai Mondiali messicani.


I cinque numeri 10
Saldanha stupì il mondo quando decise di far convivere in Nazionale cinque giocatori che nei rispettivi club vestivano la maglia numero 10: Pelé, Gerson, Tostao, Jairzinho e Dirceu Lopes. Non era prevista una prima punta. Precursone dei tempi. Nonostante le critiche, il Brasile vinse tutte le partite e la stampa elogiò il CT per il gioco espresso, ligio ai dettami del futebol espressione di bellezza e allegria. Saldanha venne tuttavia attaccato pubblicamente dal tecnico del Flamengo Yustrich. E qui uscì il suo temperamento intransigente e intollerante: si presentò al suo collega esibendo un revolver. Fatto che gli alienò simpatie dei tifosi; dal punto di vista giudiziario la cosa finì in cavalleria. A livello di popolarità Saldanha comunque non perdeva troppi colpi: era osannato per il suo gioco e la sua dinamicità, piaceva perché non aveva peli sulla lingua. E il Brasile, senza particolari patemi, si qualificò per i Mondial del 1970.


Dimissioni inevitabili
I risultati erano indubbiamente dalla sua parte. Joao senza paura era riuscito a dare stabilità ad un gruppo composto da giocatori di spiccata personalità e sicuramente non facile da tenere insieme. Ma il suo rapporto con le stanze del potere calcistico cominciò a vacillare: su pressioni del presidente dittatore Emilio Medici (di origini svizzere), che non vedeva di buon occhio le simpatie comuniste del CT, la CBF volle imporre alcuni giocatori da schierare in campo, ovviamente su mandato del governo. Uno su tutti era tale Dadà detta meraviglia, che piaceva al presidente. A quel punto Saldanha sbottò e rispose per le rime.“Scelgo io i giocatori, quando Medici deve scegliere i suoi ministri non mi chiede opinioni”. Prevaleva il suo spirito libero e ribelle, alieno ad ogni forma di pressione e prevaricazione. Andò oltre: in una certa occasione affermò che i giocatori neri erano superiori a quelli bianchi. Così, dopo tante polemiche (che coinvolsero anche Pelè), il giornalista- CT venne esonerato da Joao Havelange. La Seleçao fu in seguito affidata a Mario Zagallo, già campione del mondo nel 1958 e nel 1962. Costui, asservito al potere, andò poi a prendersi meriti non suoi in Messico, quando il Brasile divenne tri-campione del mondo. Sì, perché quella squadra fu costruita da Joao Saldanha. Il Brasile dei sogni, forse il più forte di tutti i tempi.

JACK PRAN

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