Mondo, 06 luglio 2020

Silvia Romano col velo si sente libera. "Prima avevo pregiudizi, ora..."

Il rilascio di Silvia Romano aveva fatto discutere tantissimo: per la giovane cooperante l’Italia aveva speso cifre che ancora non sono state del tutto rese note e aveva diviso l’opinione pubblica sia l’accoglienza riservatele che il velo islamico che porta. A distanza di qualche tempo, ha voluto parlare proprio della scelta di abbracciare l’Islam col sito la Luce, spiegando come prima di partire come volontaria fosse tutto sommato poco interessata alla religione.

Il cambiamento è avvenuto dopo, durante le lunghe camminate che hanno seguito il rapimento.  “Iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio,  inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali. Mentre camminavo, più mi chiedevo se fosse il caso o il mio destino, più soffrivo perché non avevo la risposta, ma avevo il bisogno di trovarla”. Da lì, cominciò a vedere un “disegno”.

“Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui”. Durante un bombardamento, chiese aiuto a Dio, per la prima volta, poi partì l’idea che l’Islam fosse la scelta giusta.  “Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima, certa che Dio mi amasse e avrebbe deciso il bene per me. Quando provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere. Più aumentava la mia fede e più – quando
ero triste – chiedevo a Dio la pazienza e la forza, chiedevo a Dio che rafforzasse ulteriormente la mia fede”.
Prima di partire, vedeva le donne islamiche col velo e ammette che pensava: “poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l’oppressione della donna da parte dell’uomo”. Ora è lei, che si fa chiamare Aysha, a portarlo. “Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale”.

Sa di avere gli occhi addosso, non sa se perché viene riconosciuta o perché appunto porta il velo. “Oggi sono molto più paziente, sono molto più rispettosa nei confronti dei miei genitori, mentre talvolta, nel passato, non lo ero stata; mi sento più generosa e molto più compassionevole perché quando qualcuno mi fa un torto, quando qualcuno sbaglia nei miei confronti, anche di fronte ad offese e contrasti, sento il mio cuore completamente privo di rancore, di rabbia. Non mi viene da rispondere con le stesse offese ma cerco sempre il motivo per comprendere quella persona, penso che quella persona faccia così perché soffre e quindi io la posso e la devo aiutare”.

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