Sport, 10 giugno 2024

La finale, un rito popolare che sfocia nel melodramma

Annotazioni e considerazioni a margine della recente sfida fra Servette e Lugano

LUGANO - Il racconto attorno alla Coppa non è complicato, ma accanto alla trama e ai fatti principali ci sono dettagli, risvolti che vanno colti e aumentano il fascino di una competizione unica e speciale. I colori. Il grigio umbratile e uggioso connota la domenica dei ticinesi del 2 giugno; ore 6 e la stazione di Lugano si riempie di tifosi, la metà è Berna. Giunti nella Capitale verso le 11, si muove il corteo diretto verso lo stadio. È ammantato di bianco, uno dei colori sociali del Lugano. Cori e incitamento, i bernesi ancora sonnolenti osservano i rumorosi ticinesi, arrivati dalla periferia, per rammentare al “centro” che esistono e che sono ambiziosi. Granata è il colore della vittoria. I giocatori ginevrini ce l'hanno fatta. Esultano, hanno messo le mani sul trofeo. Lo hanno voluto, hanno sofferto e lo hanno conquistato. E si sono lasciati abbracciare sul campo dai loro sostenitori. 


Erano presenti oltre 27mila spettatori. La finale ha una forza incredibile. È una tradizione che si rinnova. Non smette di essere un grande rito popolare. Dove lo scontro diventa fine a sé stesso. La contrapposizione finisce, quando comincia la festa. Sono stati tirati 24 rigori. Il tempo è divenuto infinito, si è dilatato all'inverosimile, è successo di tutto e il contrario, il destino ha preso il sopravvento. Sono situazioni dove non è ammesso il ritorno, sono definitive. La strategia. René Weiler ha sostituito al minuto 119 il portiere Frick, è entrato Mall e tutto si è compiuto. L’allenatore ha rischiato, ma non ha avuto paura, la mossa coraggiosa lo ha premiato. Ha sfidato ogni convenzione. È rimasto lucido e ha avuto ragione. Talvolta: serve audacia; serve non pensare in maniera ordinaria. La delusione. È quella del Lugano. Il proposito era quello di ribadire il proprio valore. L'obiettivo era considerato alla portata di mano. L’ambiente ci credeva. Era tutto pronto, per festeggiare e per esultare. Ma la partita è diventata subito complicata. Una matassa che non si è stati capaci di districare. E l'epilogo finale è sconfinato nel melodramma. Ecco un’amarezza lieve, ma penetrante. Ora ogni spiegazione è superflua, non è necessaria. Ma si migliora dopo le sconfitte. La storia è maestra vita, ma la lezione va imparata e ricordata. E per fortuna nel calcio si ricomincia, sempre.


Si parla di lotteria dei rigori e anche di maledizione. Non tutti sono d'accordo su questa formula, che ritengono ingiusta e crudele, poiché non si può decretare in questa maniera il vincitore. Ma nel calcio moderno le partite non si possono ripetere, non si può rigocare, non c’è tempo, bisogna andare sempre veloci e oltre. Servette e Lugano hanno battuto 24 rigori, i ticinesi hanno avuto tre volte l'occasione di chiudere l’incontro, ma non ci sono riusciti. Il pallone pesava troppo, la porta si è rimpicciolita ed ecco l’errore fatale. Ma Sabbatini ha sbagliato in maniera diversa e clamorosa. La vicenda del suo contratto ha tenuto banco, ha diviso i tifosi, scatenato polemiche. Le ragioni si sono confuse con i torti. All’uruguaiano non è sembrato vero: sul suo destro aveva l’occasione, una di quelle che segna una carriera sportiva. Aveva la consapevolezza di essere decisivo, voleva diventare un eroe indimenticato. Ha preso il pallone sotto il braccio; si è diretto verso il dischetto; il muro dei tifosi bianconero ha sospeso il fiato; quello ginevrinoha preso a fischiare; il centrocampista ha preso la mira; ha tirato forte e il pallone è volato oltre la traversa. Poi ci sono stati altri errori marchiani. Ma per Sabbatini, forse, la partita si è conclusa in quell'attimo. Il resto è diventato una conseguenza del suo sbaglio. Il coraggio lo ha mostrato, non ha avuto paura, non si è tirato indietro.


Dopo si è visto una persona affranta e delusa. Tutti aspettavano il lieto fine, ma il verdetto del campo ha detto altro. È stato umano nella scelta di tirare, nell’errore commesso. Ha voluto sfidare le sue emozioni, credeva di avere il controllo della persona, ma la modalità dell'esecuzione ha mostrato altro. Poco importa ora stabilire come è andata. È successo, nella vita non si può tornare indietro. Le seconde occasioni non esistono. C'è la consolazione, se riusciamo a trovarla.


Il Servette ha vinto in maniera meritata. Il Lugano la partita non l’ha giocata, anche se poteva vincerla. Tuttavia pesa sull'incontro il mancato fallo di rigore non ravvisato dall'arbitro e soprattutto dagli addetti al VAR. La Coppa ha preso il volo verso Ginevra, a Lugano è atterrata la delusione. Ma il tocco di mano, nel finale, del giocatore ginevrino è apparso netto, non ci sono equivoci: era un calcio di rigore sacrosanto.
Le responsabilità della squadra arbitrale sono evidenti. Un simile errore, ai tempi dell'utilizzo della tecnologia, è inammissibile e non concepibile. Non si può parlare di incontro falsato, ma certamente sul dischetto un bianconero sarebbe dovuto andarci. Il dibattito sull’introduzione del VAR è inutile: indietro non si può tornare. Rimangono delle questioni da affrontare: come non vengono scovati errori così evidenti? Perché il protocollo è così confuso? La risposta è semplice: gli arbitri non vogliono perdere il loro potere, vogliono mantenersi il sacrosanto diritto di continuare a prendere l'ultima decisione. Vogliono limitare il mezzo a loro disposizione, intendono preservare una prerogativa che ritengono imprescindibile: la discrezionalità. Gli arbitri sono una corporazione, salda e molto attenta alla riservatezza. Si proteggono, si sentono accerchiati, e si difendono strenuamente. Il fallo di mano del giapponese del Servette Tsunemoto lo ha visto pure l'ultimo degli spettatori. L’arbitro, forse, non ha avuto il coraggio di fischiare, dato che la partita si stava per concludere. E la sala VAR? Silenzio assoluto, non ha dato segni di vita. E ha confermato la decisione del signor Dudic. Non si può parlare di clamorosa ingiustizia. Ma le cose dovrebbero cambiare e bisognerebbe discuterne. Succederà? Difficile. Alle Istituzioni le riforme serie non interessano. Nel calcio si gioca sempre. A Ginevra sono in festa, in Ticino piange e forse recrimina solo una piccola parte di Lugano. Così vanno le cose e non ci si può fare nulla. Eppure c’è anche chi dice no.

JACK PURO

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