Sport, 12 maggio 2022

“Un successo di squadra: Subiat ne fu il simbolo”

René Morf racconta il trionfo sul Grasshopper delle “stelle” Sforza, Sutter e Elber

LUGANO - La sconfitta nella finale del 1992 è dolorosissima. Il clan bianconero è al tappeto: è difficile metabolizzare un evento andato storto e che invece avrebbe potuto essere trionfale. Chissà quando mai capiterà un’ altra occasione, si chiedono in molti. Già, quando mai… Ma la forza di un gruppo e la solidità di una squadra si riconosce e si misura proprio in queste particolari situazioni e allora il Lugano inizia la stagione seguente con un obiettivo dichiarato: vincere quella Coppa sfuggita di mano in modo inatteso. Se lo ficcano in testa tutti, dal presidente Francesco Manzoni all’ultimo dei magazzinieri. Stavolta non deve sfuggire. Non è dunque casuale che già nel ritiro estivo di Olivone (peccato che non venga ripristinato) i giocatori siano motivatissimi: qualcuno, senza troppi giri di parole, parla della Coppa.


Sin dalle prime giornate di campionato la squadra di Karl Engel non tradisce la attese e anche nel trofeo Sandoz avanza, anche se non mancano le difficoltà: agli ottavi elimina lo Young Boys ai calci di rigore, in semifinale estromette lo Xamax ai supplementari. Insomma: un percorso ad ostacoli. Ma alla fine arriva la grande opportunità di riportare la Coppa a Lugano dopo 28 anni. È il 31 maggio 1993, una data storica del grande romanzo di questa manifestazione, un giorno speciale (con vittoria) di cui ci ha raccontato tutto René Morf, ex difensore e capitano dei bianconeri. Uno che, come si dice nel gergo giornalistico, ha scritto la storia del club.


Partiamo con una domanda di carattere generale: cosa rappresenta la Coppa Svizzera per un giocatore? 
Nel nostro Paese, tanto per capirci, ha un valore incredibile, molto di più per esempio che in Italia. La vogliono giocare tutti, alla fine ne sono coinvolti anche gli stranieri. Per i calciatori svizzeri, poi, ha la stessa importanza del campionato. Un po’ come in Inghilterra, dove la passione per la Coppa è debordante.


Lei è dunque un privilegiato, visto che era presente in due finali e ne ha vinta una.
Certamente. Per me la Coppa è sempre stato un sogno, sin da bambino, quando guardavo alla TV le finali di Coppa inglese commentate da Giuseppe Albertini. Un appuntamento imperdibile per gli appassionati di calcio. Se non sbaglio cadeva a metà maggio, teatro il leggendario stadio di Wembley, quello vecchio… 


René, entriamo in argomento e parliamo della Coppa del 1993. Ricordando cosa era successo l'anno prima. 
Eh sì, perché una vittoria spesso e volentieri si costruisce da una sconfitta. Nel 1992 perdemmo male la finale contro il Lucerna. Il tecnico Engel quel giorno mi lasciò in panchina. Comunque: avevamo i favori del pronostico; loro era appena stati relegati in LNB, noi venivamo da una ottima primavera, durante la quale disputammo il torneo di promozione/relegazione alla grande, salvandoci in anticipo. In casa lucernese la crisi era profonda: i giocatori erano stati contestati dal
pubblico e la stampa non risparmiava critiche pesanti alla società. Fu lì che forse commettemmo uno sbaglio, e cioè di pensare che il Lucerna fosse allo sbando. Non fu così.


Errore di valutazione?
Diciamo che forse avremmo dovuto essere maggiormente prudenti nell' analisi della situazione. Alla fine, però, non ci furono responsabilità oggettive di uno piuttosto che di un altro. Il nostro atteggiamento, il nostro approccio alla partita non fu sbagliato. Forse eravamo troppo carichi. 


Come ha osservato recentemente Karl Engel da queste colonne. 
Il nostro tecnico è sempre stato un gran motivatore. E forse per questo motivo sentivamo una grande pressione. Arrivammo alla finale piuttosto tesi. E alla fine, dopo un buon inizio, il Lucerna ci castigò.


Persa la finale, il Lugano ripartì dai piedi della scala.
Con lo spirito per altro giusto. Sapevamo di aver fallito una occasione ma toccava a noi crearcene un' altra. Detto fatto, sin dai primi giorni del ritiro di agosto ci mettemmo in testa che la Coppa persa l'anno prima, avremmo dovuto portarla in Ticino. Riflettendo sugli errori commessi nel 1992. Stavolta sarebbe andata meglio! 


Ma avevate di fronte il Grasshopper!
Grazie alle vittorie sofferte contro Young Boys e Xamax nei turni precedenti, ci creammo una sorta di corazza. Eravamo capaci di soffrire e poi di vincere. Ma contro le cavallette delle stelle – ricordo il tecnico olandese Leo Beenhakker oltre ai vari Brunner, Vega, Elber, Sforza e Sutter – non ci fu partita. Controllammo la sfida in ogni momento e in ogni istante, anche quando il GC segnò la rete del 2-1. I nostri rivali, va pur detto, non erano nelle loro migliori condizioni psico-fisiche. In quella stagione fallirono tutti i loro obiettivi. 


Chi furono gli artefici di quella vittoria? 
Direi tutta la squadra. Perchè quella era una squadra con la s maiuscola. Grande compattezza, senso di appartenenza oltre naturalmente alla qualità di alcuni singoli. Ma se proprio posso fare un nome, allora cito Nestor Subiat. Oltre ai due gol trasmise grandi emozioni al gruppo. Un leader. Ricordo che quando segnò il gol del 2-0 si inginocchiò e alzò le braccia al cielo. Scaricava in quel momento tutta la tensione e la gioia. Il Lugano aveva raggiunto il suo obiettivo. Per lui, come per me, credo che quello sia il risultato più bello di carriera.


A proposito di appartenenza
In quella stagione, come nella precedente, il tecnico Engel schierò tanti giocatori ticinesi o cresciuti nel vivaio: oltre al sottoscritto, Penzavalli, che nel 1993 andò in panchina, Colombo, Esposito, Tami, Fornera. Quest' ultimo segnò un grandissimo gol da lunga gittata. Avere in squadra tanti giocatori indigeni fa sempre bene ad una squadra.

MAURO ANTONINI

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