Sport, 25 febbraio 2022

Finisce sul Portet d’Aspet il sogno di Fabio Casartelli

Il talentuoso corridore italiano morì dopo una brutta caduta al Tour de France del 1995

LUGANO - Ogni volta che il Tour de France ritorna sul Portet d’Aspet, una delle più temibili salite dei Pirenei, non si può non pensare a Fabio Casartelli, talentuoso corridore italiano che proprio nella discesa da quel colle perse la vita. Luglio 1995. Una tragedia che scosse tutti gli appassionati di ciclismo e che scatenò un mare di polemiche legate alla necessità (o meno) di indossare il casco protettivo da parte degli atleti. Un problema che tornava prepotentemente d’attualità ma che la scomparsa del giovane comasco non contribuì a risolvere. Bisognò infatti attendere un altro dramma per costringere l’ UCI a rendere obbligatorio il casco: nel 2003, otto anni dopo la morte di Casartelli, anche il russo Andrey Kivilev perse la vita cadendo rovinosamente durante una tappa della Parigi-Nizza. Stavolta la federazione internazionale si decise ad intervenire. Meglio tardi che mai.


Quel fatale 18 luglio
Fa un gran caldo al Tour de France. Miguel Indurain è lanciatissimo verso la sua quinta vittoria Il nostro Alex Zülle e Bjarne Rjis, corridori che lasceranno il segno negli anni a seguire a causa del doping, provano ad arginarlo ma invano: lo spagnolo ha una marcia in più. A cronometro è imbattibile, in salita si difende alla grande. E allora si viaggia verso Parigi, verso i Campi Elisi, consapevoli che alla fine vincerà il più forte del gruppo. Pantani e Virenque si dimostrano i più degni antagonisti in montagna ma i loro limiti nelle corse contro il tempo favoriscono Miguelon.


Il 18 luglio, a cinque giorni dalla passerella parigina, si corre la Saint Girons-Cauterets, un tappone pirenaico di oltre duecento chilometri. Da scalare, nell’ordine: Portet d’Aspet, Menté, Peyresourde, Aspin, Tourmalet e lo strappo finale a Crêtes du Lys. In quelle montagne c’è buona parte della storia e della leggenda della Grande Boucle. Attorno a mezzogiorno nella discesa dal Portet d’Aspet si verifica una caduta che coinvolge una decina di corridori. La velocità si aggira sugli 80 km orari. All’altezza di una curva a sinistra, il francese Dante Rezze cade rovinosamente a terra ed altri suoi colleghi gli rovinano addosso: Giancarlo Perini, il futuro campione del mondo a Lugano Johan Museeuw e Erik Breukink riescono a rialzarsi e a ripartire: Dirk Baldinger si rompe il bacino mentre Casartelli sbatte e picchia violentemente la testa su un paracarro e resta a terra privo di sensi.


Immediatamente
Gérard Porte, medico del Tour, soccorre il corridore della Motorola, che viene portato in elicottero all’ospedale di Tarbes. Durante il viaggio Fabio subisce tre arresti cardiaci e arriva in ospedale in coma. Alle 14 il suo cuore cessa di funzionare. Sul Tour cala il silenzio, Adrian De Zan, storico commentatore della RAI, riesce a malapena a concludere la sua telecronaca. Il ciclismo è in lutto.


Polemica e retorica
Il giorno seguente il Tour de France riprende la sua marcia, anche se c'è chi vorrebbe fermarlo definitivamente. La sedicesima tappa viene comunque neutralizzata con il passaggio contemporaneo dei corridori della Motorola (fra i quali Peron e Armstrong) sul traguardo e gli altri dietro in fila indiana. Lo statunitense vince poi la diciassettesima tappa e mentre arriva al traguardo solleva l’indice delle mani al cielo e dedica la vittoria al compagno di squadra appena scomparso. Fabio è il terzo ciclista che perde la vita sulle strade della Grande Boucle: era toccato allo spagnolo Armando Cepeda nel 1935 e in seguito al britannico Tommy Simpson nel 1967.


Inevitabilmente, subito dopo il tragico evento del Portet d’Aspet, si scatenano le polemiche sulla mancanza di sicurezza sulle strade e la non obbligatorietà del casco protettivo. Non si distinse (eufemisticamente parlando) l’allora direttore della Gazzetta dello Sport, Candidò Cannavò che, pur manifestando il dolore per la morte del suo giovane connazionale, scrisse che, citiamo, “per non offendere la memoria di quel ragazzo e lo strazio dei suoi cari bisogna avere la forza dell'onestà. Non istruiamo processi, non cerchiamo i colpevoli. Il ciclismo è dalla sua nascita un'ardua professione di vita. Nessun mezzo tecnico lo ha snaturato. Nessuna caccia al business o allo spettacolo lo ha reso più pericoloso di quanto non fosse ai tempi dei pionieri, delle bici con le gomme piene e delle strade sterrate. Connaturata al ciclismo c'è, da sempre, una dose di rischio. Chi fa delle corse la sua professione lo sa benissimo. E quando si lancia in una discesa, con casco o senza, conosce i brividi che lo attendono. Tutte le sere al Giro noi abbiamo Qualcuno lassù da ringraziare”. 


Retorica quanto meno imbarazzante di chi voleva difendere un prodotto giornalisticamente vincente come il ciclismo ma comunque pericoloso e da regolare in questioni di sicurezza.

JACK PRAN

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