Sport, 07 dicembre 2020

“Ho visto Diego Maradona esordire nel lontano 1976”

La testimonianza dell’ex giocatore e procuratore Eduardo Taranto che vive a Losone

LOSONE - Eduardo Jorge Taranto, argentino di Buenos Aires ma con discendenza italiana (il papà era di Cosenza), il 20 ottobre del 1976 ebbe il privilegio di assistere all’esordio nel calcio professionistico di un giovanissimo Diego Armando Maradona. Oggi, a tanti anni di distanza, Eduardo, un signore di 81 anni che vive a Losone, racconta al Mattino della Domenica quella giornata storica, in cui l’Argentinos Juniors del Pibe affrontò il Talleres Cordoba. Fu l’inizio della carriera più entusiasmante e controversa di tutta la storia del calcio.

Incontriamo Eduardo alla stazione FFS di Bellinzona. Malgrado l’età e gli acciacchi di stagione, è in perfetta forma. Ha ancora tanta voglia di raccontare le storie dei calciatori del suo paese: difficile incontrare qualcun altro più informato. Nel suo album dei ricordi c’è spazio per tutti: dai più“ grandi” ai giocatori sconosciuti. Lui che è cresciuto nel Ferrocarril Oeste, una delle tantissime squadre della capitale argentina e che a 23 anni lasciò l’amata patria per l’Italia. La sua prima squadra fu il Concordia, una compagine modenese che giocava nell’Eccellenza. 

“Ero un centrocampista di buone maniere – dice ridendo – Dopo aver cominciato nel Ferro, nel quale giocavo al fianco di un certo Marzolini, diventato uno dei pilastri dell’Argentina che andò ai Mondiali del 1966, passai al Porvenir di Buenos Aires. Una breve esperienza e poi via, verso l’Italia, la terra dalla quale i miei nonni erano emigrati nel 1890. Non ero certo un fenomeno e dopo un periodo trascorso nel Concordia approdai al Carpi, dove subito diventai l’idolo dei tifosi locali. Ma soffrivo tanto la nostalgia di casa. Facevo fuori il mio stipendio in lunghe telefonate intercontinentali…” 

Poi un giorno ecco l’opportunità di sfruttare il doppio passaporto italo-argentino. Ma in Svizzera. “Mi si aprirono le porte di un istituto bancario di Locarno e così lasciai l’Italia. Calcisticamente perdevo qualcosa ma dal punto di vista umano ci guadagnai, soprattutto quando firmai per il Solduno, club di Seconda Lega. Mi trattarono come un figlio, in particolare Jacky De Carli, che ancora oggi ricordo con affetto”. 

Eduardo aveva trovato un mondo nuovo, diverso dalla rumorosa e “agitata” Buenos Aires e dalle calure della pianura padana. A tanti anni di distanza l’italoargentino non si pente di quella scelta.
“Tant’è che vivo a Losone e non la lascerei per nulla. I miei figli sono in giro per il mondo e stanno bene. Quando questo virus finirà andrò a trovarli, mi mancano tanto ma sono tranquillo perché si sono costruiti una bella vita”.

Dopo il Solduno, seguirono il Minusio, il Losone e infine il Roré. “E proprio in quel periodo mi capitò di andare in vacanza in Argentina a trovare i miei parenti - dice Taranto - e in particolare nel 1976, quando rimasi tre mesi circa. Anni duri, quelli…” Il nostro interlocutore non ama parlarne. Erano gli anni della dittatura militare del generale Videla: i desaparecidos, le mamme della Piazza de Mayo, la guerra sporca. Eccidi che solo
anni dopo verranno riportati allo scoperto.

“Se penso che nel 1978, durante i nostri mondiali, i prigionieri politici venivano torturati vicino allo stadio dove si giocavano le partite, mi assale una grande tristezza. Eppure c’era chi sapeva ma non parlava: Papa Bergoglio, per esempio, non ha mai veramente chiarito la sua posizione. Aspettiamo che lo faccia in modo definitivo. Non vi chiedete come mai non sia ancora andato dopo 7 anni di Pontificato nel suo Paese? Laggiù lo aspettano ma non tutti per dargli fiori e celebrarlo…”.

Ma torniamo in argomento, a quel 20 ottobre 1976. Il giorno in cui il mondo del calcio cambiò. “Avevo sentito parlare di questo Maradona – racconta Eduardo – ma non lo avevo mai visto giocare. Approfittai di quel viaggio a Buenos Aires per togliermi la curiosità. Lui avrebbe compiuto 16 anni dieci giorni dopo Argentinos Juniors-Talleres Cordoba. Per la precisazione ricordo che partì dalla panchina. Il ruolo di regista lo ricopriva un certo Giacobetti. Quando vidi Diego entrare in campo nella ripresa mi fece subito impressione…”.

In che senso? 
“Aveva lunghissimi capelli ricci, occhi vivi e una maglia rossa fuoco con una banda trasversale bianca. Era la maglia degli Argentinos. Era piccolo di statura ma non aveva paura di nessuno. E allora pochi minuti dopo aver sostituito Giacobetti piazzò un tunnel micidiale a Juan Domingo Cabrera che, per lavare l’onta, nell’azione successiva lo fece volare con una entrata assassina. Diego si fece male, si rialzò e non disse un parola. Questo atteggiamento lo avrebbe contraddistinto in tutta la sua carriera”.

Maradona non bastò per battere il Talleres ma uscì fra gli applausi del pubblico e anche degli avversari: “Mi ricordo che Miguel Oviedo, famoso giocatore argentino, andò negli spogliatoi a stringergli la mano. Non si usava molto da noi, anche perché la rivalità sportive erano e sono piuttosto accese”. 

La partita del giovanissimo riccioluto ebbe eco anche sulla stampa nazionale, in particolare sul giornale sportivo El Grafico di Buenos Aires. Racconta Taranto a questo proposito: “Diego si prese un bel voto, un 7 che ne attestava le capacità tecniche e pure fisiche malgrado l’altezza. Ma non solo: il giornalista Hector Vega Onesime criticò l’allenatore per non averlo schierato dal primo minuto”.

L’inviato del giornale, per giustificare la nota di Diego, scrisse: abile, intelligente e sorprendente.
Eduardo Taranto aveva dunque soddisfatto la sua curiosità e conosciuto quel ragazzino di cui tutti dicevano un gran bene. “Quando lasciai lo stadio dell’Argentinos Juniors ero convinto che di quel giocatore avremmo sentire parlare a lungo. I fatti mi hanno poi dato ragione. Oggi se penso che è morto a 60 anni, ancora giovane tutto sommato, non mi do pace. Diego non era un Dio come l’hanno definito in tanti: no, Diego era soltanto un uomo. Pieno di talento calcistico e di difetti. Purtroppo la cocaina e le cattive compagnie lo hanno ucciso. A cominciare dai camorristi napoletani, che lo trattarono come un burattino”.

MAURO ANTONINI

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