Nel tempo sviluppano una capacità vieppiù crescente di restituire colpi profondi e insidiosi, soltanto appoggiando bene la racchetta sulle bordate dei giovani rampanti, che si stremano invano nel dispendioso tentativo di scardinare l’anziano campionissimo di turno. Ricordo Claudio Mezzadri affermare più di una volta in telecronaca, che la raffinatezza del braccio è in una continua evoluzione potenzialmente infinita e questo grazie al fattore neurologico. Scientificamente parlando le analisi in questa direzione sono corrette, perché ogni movimento è originato da una rete di connessioni sinaptiche tra i neuroni che si moltiplicano e irrobustiscono con la pratica. I vecchietti del circuito dispongono per così dire, di cablaggi più corposi per rispondere in modo sempre più efficace alla domanda che ogni colpo dell’avversario pone in modo aleatorio. Tutto vero, se non fosse che gli esseri umani manifestano difficoltà impensabili per un pannello elettrico nel restare allacciati alla propria rete per attingere alle risorse motorie delle quali dispongono. Se fossimo dei robot, Nick Kyrgios avrebbe risparmiato qualche centomila dollari, invece dissipati in multe comportamentali, e magari vinto qualche torneo importante. Se il tennis fosse riconducibile a una mera dimensione tecnica Fabio Fognini avrebbe probabilmente risposto presente all’ultima chiamata di Bercy per le finals, anziché illustrarsi per l’ennesimo impeto autodistruttivo proiettato sulla consueta frantumazione racchetta.
“Coazione a ripetere” direttamente dal dizionario Treccani: tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze. Apparentemente miserabili fenomeni da baraccone, i due personaggi menzionati sono in realtà ottimi rappresentanti di teorie freudiane, che ci consigliano di estendere le indagini tennistiche anche ad altre branche delle scienze umane.
Smartphone vs esperienza
Inconsapevolmente a cavallo tra neurologia e sociologia si situa una recente intervista di Lleyton Hewitt -classe ’81 come Federer, suo acerrimo rivale agli inizi, precoce numero uno sull’onda di una foga agonistica assopitasi in fretta più che coll’età, coll’annichilente rivoluzione poliedrica di Roger e seguaci; oggi allenatore del pupillo australiano De Minaur finalista a Basilea. Anch’egli interrogato sul procrastinarsi del cambio generazionale, con interessante intuizione ha additato l’uso spasmodico dei cellulari quale fonte di distrazione incompatibile con l’enorme richiesta di dedizione che presuppone una carriera da campione. Non esistono studi che mettono in relazione specifica abuso dello schermo tattile e carriere sportive, ma decine di allarmanti ricerche dimostrano dati in vertiginoso aumento su telefonini e nefaste conseguenze correlate ai processi attenzionali e cognitivi. Per quanto ne sappiamo, magari Djokovic passa il doppio del tempo sullo smartphone rispetto a Tsitsipas (6-1, 6-2 per il serbo a Bercy), però Hewitt i giocatori del circuito li vede tutti i giorni, giovani e meno giovani, e forse la sua spiegazione ha delle fondamenta che un giorno verranno dimostrate. Sconfinando nell’azzardo per giustificare il protrarsi dell’oligarchia, considererei anche i percorsi affrontati dei tre magnifici rettori del tennis. Nole da ragazzino ha vissuto sulla sua pelle i bombardamenti della NATO sopra Belgrado. Come ha raccontato in alcune interviste, quella paura atroce, i campi per allenarsi ricavati nelle piscine abbandonate e
poi il rifugiarsi in paesi stranieri, sono esperienze drammatiche che hanno però forgiato col fuoco il suo carattere. Rafa ha uno zio ex nazionale spagnolo di calcio oltre allo zio Tony, che l’hanno educato al sacrificio e all’umiltà; una volta in gioventù ha lanciato una racchetta, la prima e l’ultima perché “tanti bambini non hanno neanche i soldi per comprarsela”.
Un anno fa quando un’inondazione ha colpito Mallorca uccidendo dieci persone, il Re della terra rossa si è sporcato le mani di fango per collaborare coi civili alla rimozione di detriti e macerie. Roger è cresciuto da benestante e ha manifestato in gioventù intemperanze da talento viziato. A parte la fondazione umanitaria che nasce dall’aver visto coi propri occhi l’apartheid e la miseria in Sudafrica, il punto di svolta della sua carriera coincide con il lutto per aver perso improvvisamente il suo amico e mentore Pat Carter in un incidente d’auto.
Torneo incerto
Le ATP finals che cominciano oggi tramandano una storia un po’ particolare. Mai vinte da Nadal (che sia l’anno buono?); Djokovic potrebbe raggiungere Federer a quota sei trionfi, e qui siamo alle solite; ma soprattutto da quando esiste in questo formato, il master è già stato vinto da quattro giocatori senza slam: Nikolaj Davydenko (2009), Grigor Dimitrov (2017), David Nalbandian (2005) e Alexander Zverev nell’ultima edizione. Accostare questi ultimi due nomi mette i brividi all’appassionato attento. L’argentino fu capace a suo tempo di indispettire il Federer degli anni migliori, ma anche di gettare al vento doti cristalline, un po’per pigrizia un po’attratto da sirene extratennistiche come il rally, ottenne con quell’acuto l’unica consacrazione di una carriera che poteva ambire a molto di più. Zverev classe ’97 è un portento tennistico, ha già vinto tre master mille, ma non in quest’anno preoccupante dove ha collezionato solo il misero 250 di Ginevra e i soliti tonfi negli slam; l’andamento altalenante delinea una somiglianza con Nalbandian che rischia di andare oltre le bionde chiome. Altro David per fisico statuario e capelli è il greco Tsitsipas; Stefanos di un anno più giovane è alla prima qualificazione alle finals, solo tre 250 in bacheca, ma molti lo vedono come futuro numero uno, motivo forse del nervosismo che ultimamente non lo sta aiutando. Dominic Thiem è il più vecchio dei giovani (‘93), a parole promette l’esplosione definitiva nel 2020; anche se ha fregato Indian Wells a Roger, fuori dalla terra di Parigi sino ad oggi poco o niente negli slam. Con risultati recenti decisamente più beneauguranti arriva invece a Londra, addirittura da numero quattro, il sorprendente Danil Medvedev (‘96), due master mille e una finale slam negli ultimi due mesi e mezzo. Allampanato nelle movenze, sghembo sugli appoggi, impatta però la palla come pochi, grande senso dell’anticipo e tenuta mentale capace di ribaltare due set a Nadal nell’ultimo atto dell’US Open. Coetaneo del russo, Berrettini ha strappato in extremis l’ultimo biglietto per il campo della O2 arena riportando l’Italia ai vertici quarant’un anni dopo l’apparizione di Corrado Barazzutti.
E il primo fu Panatta
Il primo azzurro nel torneo dei migliori era stato Panatta nel ’75, romano come il mitico Adriano, Matteo sembra ereditare quello spirito capace di prendere la vita con filosofia -dopo la stesa a Wimbledon ha chiesto a Federer quanto gli doveva per la lezione- e di calarsi nel ruolo dell’outsider pronto a cogliere le opportunità. Da oggi a domenica prossima la cattedra di maestro del tennis 2019 è in palio sulle sponde del Tamigi. Impulsi cerebrali e viscerali, nevrosi e psicosi sanciranno un verdetto sul terreno; poi esperti, mistici e psicanalisti vari stabiliranno il grado di avanzamento del processo di avvicendamento tra rampolli e decani. Novak e Rafael favoriti dai pronostici, Roger preferito dal pubblico. Chissenefrega se il serbo eguaglierà il numero di Master e se un giorno gli sottrarranno altri record. Matteo Codignola nel suo imperdibile libro “Vite brevi di tennisti eminenti” ricorda che prima del professionismo il tennis era un mondo libero e per certi versi alieno, dove ognuno sembrava dare, del gioco, un’interpretazione quantomeno personale.
MATTIA WERNER