Una settimana di fuoco. Non c’è altro mondo per definire quanto accaduto in questi giorni in ogni angolo del mondo, dove sembra che le crisi abbiano deciso di esplodere nella loro massima violenza proprio tutte insieme, come in un’unica quanto inquietante strategia. Nessuna area del mondo si può dire immune da questi sommovimenti. E adesso tante crisi sembrano divampare anche nei luoghi che si consideravano blindati, nei templi della democrazia come nei Paesi più stabili, fino anche nei regimi o nei governi più autoritari. Un’unica grande crisi di carattere internazionale in cui è difficile districarsi ma in cui è comune il denominatore: la popolazione è in rivolta e i governi si stanno lentamente indebolendo. Una miscela esplosiva da cui dipana un’instabilità che ormai sembra imperante.
Le immagini di questi giorni parlano chiaro. Il Cile vive una delle sue crisi politiche e sociali più profonde, mentre la capitale, Santiago, ha visto tornare i blindati per le strade come non accadeva dalla fine dell’era di Augusto Pinochet. Sono passati decenni dall’ultima volta in cui i carri armati e l’esercito presidiavano la città: eppure oggi sembra essere piombati di nuovo nel passato. E non è stato certo un aumento del biglietto dei mezzi pubblici a poter scatenare la rabbia di un intero popolo. Rabbia che ha caratterizzato anche pochi giorni prima l’Ecuador, dove le rivolte hanno costretto il governo a fermare un nuovo aumento delle tasse. Un Sud America in ebollizione, in cui oltre al Cile e all’Ecuador si devono contare l’Argentina, sull’orlo del collasso economico e un Venezuela che vive sull’orlo del precipizio e che solo l’alleanza di Nicolas Maduro con alcune potenze internazionali ha evitato che crollasse sotto i colpi della guerra civile.
Venti di protesta, fiamme di rivolte (o di rivoluzioni) che anno solcato anche il Pacifico e che da mesi caratterizzano le giornate di un altra città che sta rappresentando la più grave sfida del governo cinese nel momento in cui Xi Jinping ha voluto aprirsi al mondo: Hong Kong. La protesta non si placa. E il governo di Pechino, non propriamente abituato al guanto di velluto, sa di dover tirare il freno a mano. Non è una semplice protesta: è qualcosa di radicato, di violento e anche di molto pericoloso. Lo Stato centrale sa di non poter far calare la mannaia sulla protesta, perché tutto il mondo ha gli occhi puntati sull’ex colonia britannica. E nel frattempo, la città si trasforma nel tempio della rivolta contro il governo di Xi. Una crisi che può infiammare la Cina e che soprattutto può scatenare un effetto domino che il Partito comunista teme sotto il profilo interno e internazionale. A tal punto che, per adesso, preferisce non agire: o teme di farlo.
Nel frattempo, l’Asia è una polveriera. Non c’è un Paese, dall’Estremo al Vicino Oriente, che non sia solcato da crisi violente e da minacce alla stabilità. Non lo è l’Asia centrale, dove la guerra in Afghanistan continua a mietere decine di vittime ogni giorno e dove di recente anche Paesi come il Kirghizistan hanno vissuto settimane di rivolte e tensioni che hanno contraddistinto un’estate particolarmente bollente, con allo sfondo la mai sopita crisi del Kashmir. E spostandoci verso Ovest, non potendo evidentemente sfuggire a quanto accaduto nel Golfo Persico e a quanto sta accadendo quotidianamente