Bill Robinzine, ex cestista della NBA, è salito alla ribalta, suo malgrado, per essere diventato (secondo una ricostruzione dei media americani dell'epoca) l’uomo del vetro rotto. In sostanza, e tanto per chiarire: il 13 novembre del 1979 Darryl Dawkins, che giocava con i Philadelphia 76ers, andò a schiacchiare con rabbia e potenza mandando in frantumi il tabellone, che ovviamente non resse alla carica agonistica del pivot afro-americano. La conseguenza è facilmente immaginabile: tutti vetri volarono su una parte e l’altra del parquet e alcuni dei quali colpirono, comunque senza ferirlo, proprio il malcapitato Robinzine, che riuscì a scamparla proteggendosi alla bell’e meglio.
Quel gesto poderoso (e pericoloso) diventò in poco tempo “ Robinzine Cryin”. In realtà Bill non era uno qualunque: aveva talento e nel 1975 venne draftato insieme ad altri futuri big, uno su tutti Joe Bryant, papà dell’indimenticabile Kobe, scomparso lo scorso anno in circostanze drammatiche. Fu proprio 46 anni fa che Robinzine venne scelto come decimo al primo giro dai Kansas City Kings.
Il suo nome completo è William Clintard Bill Robinzine. Nasce a Chicago il 20 gennaio del 1953 da una famiglia povera, come la stragrande maggioranza degli atleti di colore che provano a lasciare i quartieri malfamati e in subbuglio sociale per approdare al grande sogno, alla National Basket Association. Bill vi arriva dalla De Paul University. Ma ha iniziato a giocherellare con la palla a spicchi solo a 16 anni. Lo sport non è la sua unica passione: gli piacciono gli scacchi ma soprattutto la tromba.
Un vero talento. Ma il padre lo avvia al basket, perché intravvede guadagni e celebrità. La pressione del genitore alla lunga si rivela decisiva e Bill alla fine decide di calcare i parquet. In quegli anni sta per finire il mito di Nate Archibald e Robinzine comincia la scalata verso il vertice della gloria. Ma per arrivarci serve un carattere forte, tenace e inflessibile. Caratteristiche che lui sembra avere. Tecnicamente è fortissimo: abile nell’uno contro uno, a rimbalzo ha pochi
Quel gesto poderoso (e pericoloso) diventò in poco tempo “ Robinzine Cryin”. In realtà Bill non era uno qualunque: aveva talento e nel 1975 venne draftato insieme ad altri futuri big, uno su tutti Joe Bryant, papà dell’indimenticabile Kobe, scomparso lo scorso anno in circostanze drammatiche. Fu proprio 46 anni fa che Robinzine venne scelto come decimo al primo giro dai Kansas City Kings.
Il suo nome completo è William Clintard Bill Robinzine. Nasce a Chicago il 20 gennaio del 1953 da una famiglia povera, come la stragrande maggioranza degli atleti di colore che provano a lasciare i quartieri malfamati e in subbuglio sociale per approdare al grande sogno, alla National Basket Association. Bill vi arriva dalla De Paul University. Ma ha iniziato a giocherellare con la palla a spicchi solo a 16 anni. Lo sport non è la sua unica passione: gli piacciono gli scacchi ma soprattutto la tromba.
Un vero talento. Ma il padre lo avvia al basket, perché intravvede guadagni e celebrità. La pressione del genitore alla lunga si rivela decisiva e Bill alla fine decide di calcare i parquet. In quegli anni sta per finire il mito di Nate Archibald e Robinzine comincia la scalata verso il vertice della gloria. Ma per arrivarci serve un carattere forte, tenace e inflessibile. Caratteristiche che lui sembra avere. Tecnicamente è fortissimo: abile nell’uno contro uno, a rimbalzo ha pochi
rivali. Nella fase difensiva è una certezza. Nel 1978 raggiunge l’apice: è un giocatore affermato e guadagna 600 mila dollari l’anno. Ma nel 1980 le cose cominciano a complicarsi, perché Bill si infortuna ad una gamba. La fase di riabilitazione è più dura del previsto, quasi inevitabilmente comincia a farsi molte domande. Quando potrò riprendere, e quando lo farò sarò lo stesso di prima? Tanti dubbi e tanti interrogativi. A quel punto inizia un lento ma inesorabile declino, sia come giocatore sia come uomo. In poco tempo cade dall’altare alla polvere. Nel mondo del professionismo dorato yankee è molto comune. Alla fine dello stesso anno passa comunque ai Cleveland Cavaliers dove dura meno di un mese. Viene infatti ceduto ai Dallas Mavericks.
Nel 1981 viene ingaggiato dagli Utah Jazz. In un anno e mezzo, tre squadre. Brutto segno. Un colpo durissimo al morale e all’autostima. E proprio durante la sua esperienza a Salt Lake City, Frank Layden, direttore generale degli Utah Jazz, lo chiama da parte e gli dice apertamente di cercarsi una squadra. Per lui non c è più posto. Intanto Bill si butta nella musica. E non si dimentica di essere stato un buon giocatore di scacchi. Ma ha perso la fama e soprattutto si ritrova con pochi soldi, lui che aveva assaporato i grande benefici della NBA. Potrebbe varcare l’Oceano, l’Italia lo chiama ma rifiuta: nel suo cuore vive sempre la speranza di tornare nella lega più forte del mondo. Pia illusione.
Dentro di lui ora cova la rassegnazione, si sente un uomo fallito e sconfitto dalla vita. E così il 16 settembre del 1982 decide di farla finita: a soli 29 anni viene ritrovato morto dentro la sua Oldsmobile in un deposito di Kansas City. Si è ucciso col monossido di carbonio. Lascia la moglie Claudia, il piccolo Steve e tutti coloro che ne avevano apprezzato le doti umane e sportive, che purtroppo aveva smarrito. Di lui un giornalista americano scrisse: “Se ne è andato Bill Robinzine, l’uomo che non sapeva più sorridere”.
JACK PRAN