Mondo, 10 luglio 2018

Gli Stati Uniti sono ancora i gendarmi del mondo?

Mentre gli occhi del mondo sono puntati sull’Estremo Oriente ed in particolare guardano con fiducia alla risoluzione della crisi nella Penisola Coreana, la partita per l’area del Mediterraneo allargato si sta ancora giocando ed all’orizzonte si stanno delineando capovolgimenti di fronte.


Gli Stati Uniti giocano ancora una volta il ruolo di protagonisti in quello che è fondamentalmente un unico fronte che va da Gibilterra allo Stretto di Hormuz e da Capo Nord al Corno d’Africa. La dottrina di Trump America First – spesso e volentieri mal interpretata come un ritiro tout court degli Usa dai fronti esterni – si pone nel solco, per quanto riguarda gli affari esteri, di quella della precedente amministrazione che prende il nome di driving from behind. Seguendo questa filosofia l’amministrazione Obama ha condotto – ad esempio – le rivolte denominate “Primavere Arabe”e ha cercato di destabilizzare la Siria e l’Egitto barcamenandosi in un primo tempo tra il sostegno ai movimenti islamici e a quelle poche fazioni di opposizione più laiche, per poi fare dietro-front e “chiudere i rubinetti” una volta che altri fattori, anche esterni, hanno preservato lo status quo impedendo il sovvertimento dei regimi. 


L’amministrazione Trump, in questo senso, ha solo proseguito nella scelta di quelle precedenti di impegnarsi attivamente solo in quei teatri di interesse prioritario per gli Stati Uniti, preferendo delegare ai propri alleati – ma pur sempre mantenendo un certo controllo – la gestione delle crisi che riguardano il contenimento del terrorismo di matrice islamica o il contenimento di avversari regionali.


L’Europa ancora al fronte?


Da questo punto di vista è emblematica la richiesta, effettuata già a partire dal summit Nato del Galles, di aumentare la percentuale del Pil devoluta alla Difesa al 2% per i Paesi membri dell’Alleanza Atlantica nel quadro di contenimento della Russia e gestione della crisi ucraina. Washington però, non ha rinunciato, dietro esplicite pressioni dei Paesi dell’Est membri della Nato, a fornire una forma di deterrenza: il programma Eri/Edi (European Reassurance Initiative / European Deterrence Initiative) cominciato nell’era Obama vede quest’anno una pioggia di dollari che servirà a migliorare le strutture militari in Polonia, Ungheria, Romania, Paesi Baltici e Repubblica Ceca. 


Questa scelta però si accompagna alla parallela chiusura di installazioni e relativo spostamento di mezzi e uomini dall’Europa Occidentale: la divisione di fanteria Usa che sarà rischierata tra Polonia e Ungheria si sposterà dalla Germania mentre i vari asset militari (velivoli e mezzi terrestri) verranno spostati dalle basi olandesi e tedesche verso oriente. Tutto questo ovviamente avrà un costo non solo per quanto riguarda le nuove strutture logistiche ma anche perché gli Stati Uniti e la Nato hanno ribadito l’esigenza di migliorare la rete infrastrutturale europea proprio in funzione del rapido trasporto di rifornimenti e rinforzi dai porti di Olanda, Belgio e Germania verso “il fronte” rappresentato dai Paesi orientali della Nato.


Gli Stati Uniti hanno davvero abbandonato l’esportazione della democrazia?


Alcuni vedono un fil rouge che collega le amministrazioni americane degli ultimi 20 anni. Questo filo conduttore è rappresentato da una sorta di “isolazionismo” contraddistinto dalla volontà dei vari Presidenti (da Clinton sino a Trump) di puntare tutto sulla politica interna e sul rilancio dell’economia a discapito della volontà di impegnarsi in politica estera come gendarmi del diritto all’autodeterminazione dei popoli e della libertà dei traffici, come espresso nei 14 punti formulati dal presidente Woodrow Wilson al termine del primo conflitto mondiale. 

In realtà non solo la formulazione obamiana del driving from behind ma anche la rivoluzionaria strategia denominata Joint Vision 2020 formulata dal Dipartimento della Difesa Usa nel 2000 non è che un’evoluzione della volontà degli Stati Uniti di continuare a essere i gendarmi del mondo esportatori di democrazia.


Ovviamente non essendoci più la contrapposizione in blocchi monolitici che ha diviso il mondo sino al termine della Guerra Fredda era necessario rivedere il livello di impegno estero delle forze armate americane, per questo nel documento Joint Vision 2020 si legge la volontà di concentrare le capacità militari americane nel proprio territorio metropolitano, continuando però a mantenere degli importanti presidi nei nodi chiave rappresentati da quelle aree che di volta in volta risultano essere strategiche per gli interessi Usa. Pacifico, Europa, Golfo Persico, Oceano Indiano, sono tutte regioni geografiche dove sono presenti importanti basi americane che di volta in volta vedono aumentare la presenza militare Usa a seconda delle necessità.


Questa possibilità viene mantenuta anche – e nonostante – l’ambizioso progetto del Prompt Global Strike, ovvero la ricerca di un sistema convenzionale in grado di condurre un attacco di precisione in qualsiasi parte del globo nel tempo di un’ora in modo simile ai missili balistici intercontinentali a testata nucleare. Da questo punto di vista la decisione di Trump di ridare impulso ai sistemi nucleari tattici, praticamente spariti dagli arsenali degli Stati Uniti col termine della Guerra Fredda, rappresenta un passo indietro dal punto di vista strategico rispetto alla dottrina che sottintende il Pgs.   


Anche la strategia del driving from behind così bene messa in pratica da Obama per destabilizzare il Nord Africa e parte del Medio Oriente non è altro che la continuazione della dottrina wilsoniana con altri mezzi rispetto a quello di avere direttamente truppe sul campo che materialmente sovvertono i regimi ostili agli Stati Uniti. Proprio Obama, infatti, oltre a finanziare le Primavere Arabe tramite l’appoggio – diretto o attraverso intermediari come l’Arabia Saudita – a fazioni avverse ai regimi aventi come denominatore comune una forma di integralismo islamico (la Fratellanza Musulmana), è stato anche fautore di una serie di aiuti finanziari e militari a Paesi che, in altre parti del globo, erano funzionali al contenimento di avversari/concorrenti degli Stati Uniti (Cina e Russia) per sopperire al ritiro dei contingenti militari dai vari teatri conseguente alla politica di tagli al bilancio della Difesa che ancora sta incidendo sulle capacità delle FFAA Usa.


In questo quadro, la richiesta di Trump ai Paesi membri della Nato di aumentare il proprio bilancio per la Difesa è perfettamente in linea con la volontà di delegare il contenimento della Russia – e in prospettiva di futuri attori mediterranei – all’Europa avendo però ben in mano le redini di questa politica: il rafforzamento della Sesta Flotta che da qualche

anno era privata stabilmente di portaerei (così come la Quinta Flotta) e soprattutto la riapertura del comando della Seconda Flotta (chiuso nel 2011) indicano che Washington non intende affatto cedere al ruolo di potenza egemone e trincerarsi in un “isolazionismo” di qualche tipo.


Trump e la “coreanizzazione” dei teatri di crisi  


I vuoti in natura vengono sempre colmati, e così accade anche in geopolitica. Se si libera il campo dalla propria presenza militare – divenuta incostante – altre Nazioni cercheranno di occuparlo. Così è avvenuto in particolar modo per l’Estremo Oriente dove la Cina, soprattutto durante l’amministrazione Obama, ha costantemente incrementato la propria espansione andando ad occupare le acque dei mari a lei contigue (Mar Cinese Meridionale) e trasformando la propria politica di near seas active defense in una dottrina di ampio respiro volto a permetterle la ricerca del contrasto marittimo agli Stati Uniti ovunque nel mondo. 


L’amministrazione Trump in questo senso ha effettuato un’importante inversione di marcia, spinta soprattutto dalla pressione di Tokyo spaventata dal possibile ritiro Usa dall’area, la cui occasione le è stata fornita dalla crisi nucleare della Penisola Coreana. 


Washington, avendo ben presente la volontà di Pyongyang di giocare al rialzo col proprio programma nucleare e missilistico in quella che possiamo definire come “diplomazia dei missili” (o del ricatto) per strappare condizioni favorevoli in sede di contrattazione delle sanzioni, non ha ceduto alle intimidazioni e soprattutto non ha delegato la risoluzione della diatriba ad altri organismi o entità statuali. L’amministrazione Trump ha mostrato i muscoli inviando diversi asset militari nell’area e circondando la penisola coreana di bombardieri e portaerei: uno schieramento di forze che non si era mai visto da quelle parti dai tempi della Guerra in Vietnam. 


Anche a livello diplomatico la dialettica è stata di tutt’altro tono rispetto a quella delle amministrazioni precedenti: la Corea del Nord era definita uno “stato sponsor del terrorismo” e nei vari tweet Trump ha più volte attaccato personalmente il leader Kim Jong-un. Toni aggressivi e dimostrazioni di forza militare che facevano da contraltare ai test missilistici (a scadenza mensile) e ai test atomici di Pyongyang.


Questa dialettica però ha avuto i suoi frutti, un po’ insperati ad onor del vero. Se è stato possibile arrivare al tavolo della pace, dapprima con l’incontro tra i leader delle due Coree, è stato proprio grazie alla politica “interventista” e “bellicosa” dell’amministrazione Trump. Obama precedentemente, appellandosi principalemente al diritto internazionale e all’Onu, non ha ottenuto nessun risultato se non quello di permettere alla Corea del Nord di ottenere una iniziale capacità atomica efficace.


Ecco che quindi si spiega il dietrofront della Casa Bianca rispetto all’accordo sul nucleare iraniano, il trattato fortemente voluto dell’Unione Europea che si chiama Jcpoa. La linea dura espressa dagli Stati Uniti verso Teheran negli ultimi mesi si può leggere proprio come la volontà di Washington di “coreanizzare” la trattativa per portare gli Ayatollah a trattare condizioni migliori sul programma di sviluppo nucleare e missilistico. Trump sembra volere infatti esacerbare la situazione per rimodulare il trattato in funzione della denuclearizzazione dell’Iran e dello smantellamento dei suoi arsenali missilistici di lungo raggio: fattore che permetterebbe di stabilizzare l’area venendo incontro alle istanze di Israele e Arabia Saudita, ma che avrebbe risvolti “europei” non irrilevanti.


Se venisse infatti a cadere la minaccia missilistica iraniana, verrebbe anche a perdere di significato la presenza dei sistemi Bmd (Ballistic Missile Defence) presenti in Europa come l’Aegis Ashore attualmente schierato in Romania e Polonia. Sistemi antimissile che sono al centro della crisi tra Russia e Stati Uniti e che hanno portato al rischieramento in Europa di vettori balistici a raggio intermedio da parte russa in violazione degli accordi del trattato Inf. 


Un gioco pericoloso


La pressione americana su Teheran si sta configurando per il momento come una guerra commerciale: Washington sta facendo pressione su Riad e su altri Paesi amici che ha nell’Opec per aumentare la produzione di greggio per cercare così di levare fette di mercato al petrolio iraniano che progressivamente sta tornando ad affluire. Questo quindi comporterebbe un abbassamento dei prezzi che dai 74 dollari al barile attuali potrebbe tornare ben al di sotto della soglia dei 55/60 rappresentando un problema non solo per Teheran (e Venezuela) ma anche per la Russia, che ha ancora un’economia strettamente legata all’andamento del mercato del greggio essendo gli idrocarburi il principale prodotto di esportazione. Le conseguenze di questa scelta quindi, per ora appaiono imprevedibili, anche se la Russia ha ormai avviato rapporti molto fruttuosi con l’Arabia Saudita proprio per quanto riguarda il controllo del mercato del greggio.


Teheran inoltre rappresenta un alleato sostanziale della Russia, anche al netto della mancanza di veri legami tra Teheran e Mosca, e difficilmente il Cremlino permetterà che Washington metta alle corde gli Ayatollah così come ha fatto con Pyongyang. Dal punto di vista culturale poi, l’Iran non è la Corea e spingere nell’angolo un avversario che si sente circondato e costantemente minacciato da Israele – che continua la sua guerra parallela contro l’Iran in Siria – potrebbe avere conseguenze imprevedibili e rischiose. L’Iran per il momento ha affidato la risposta alla diplomazia e ha annunciato che, qualora tornasse il regime sanzionatorio, chiuderebbe gli accessi ad Hormuz, ma l’ipotesi risulta essere poco plausibile in quanto attualmente Teheran ha nello Stretto lo stesso passaggio obbligato degli altri Paesi del Golfo per il proprio petrolio non avendo alcun tipo di terminal al di là dello stesso. Non si capisce infatti, perché Teheran dovrebbe chiudere l’unica strada che ha per vendere il suo prodotto principale.


I prossimi mesi saranno quindi decisivi e si attende soprattutto la linea dell’Unione Europea, che ancora una volta è oggetto di attenzione da parte Usa in funzione dell’antico “divide et impera” fomentato dalla possibilità che Washington vede grazie al risultato delle elezioni in quei Paesi europei dove hanno vinto le fazioni euroscettiche: un’Europa debole e divisa farebbe il gioco degli Stati Uniti per emarginare le spinte verso Est a trazione tedesca e per arginare la penetrazione cinese nel Vecchio Continente data dal progetto della Belt and Road Initiative, che sottintende alla volontà di Pechino di creare un blocco commerciale/economico euroasiatico, possibilità che creerebbe non pochi mal di testa oltre Atlantico.  


(Via gliocchidellaguerra.it) 


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